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“…ritorno ad una sana follia”

“…ritorno ad una sana follia”

di
Filippo Tancredi

Ricordo mia nonna quando, con atteggiamento serio e perentorio, mi suggeriva di dire “Amen”, nell’attimo in cui i brividi improvvisi e scuotenti mi attraversavano per intero il corpo, perché, mi diceva: “…è passata la morte”.
E in questo lungo periodo di “brividi”, davvero credo che la morte ci abbia accompagnato, presentendosi come ospite sgradito e fugace nelle lunghe notti tragiche e silenziose di isolamento.
Per molti di noi, i brividi si fanno ancora sentire e stentano ad abbandonarci. Ma andranno via, per poter tornare a pensare alla vita senza incubi o angosce.
Dopo molti anni di attività clinica, credo che il dialogo della vita con la morte costituisca una delle numerose chiavi di lettura dell’animo umano e delle sue manifestazioni psicopatologiche.
Così come il “narcisismo”, oggi così tanto demonizzato, che, insieme al “timore di morte”, costituiscono, a mio parere, strumenti di comprensione della nostra vita psichica e dell’intera espressività psicopatologica.
Qualche anno addietro, in un periodo di presunzione artistica e creativa, scrissi di un tragico quanto grottesco dialogo tra Vita e Morte e, oggi, in questi ultimi tre mesi, rileggendo i miei scritti, ancor più credo che queste due figure si siano incontrate e parlate. Raccontando molto di sé e della propria esistenza….
Un rapporto sempre presente, dall’inizio sino al termine, fatto di una distanza variabile e imprevedibile.
Una lunga storia di amore e di odio, con lunghi periodi all’insegna del silenzio e della felicità e di momenti in cui Morte ci ricorda che c’è e non vuole essere né ignorata né trascurata…

In questi due mesi, la distanza tra Vita e Morte, per tutti noi, si è ridotta. Per alcuni, purtroppo, Morte ha compiuto ciò che umilmente fa. Il suo dovere. Il suo unico scopo di “vita”.
Per altri, invece, ci ha solo ricordato della sua esistenza, interrompendo, poco dopo, ogni comunicazione e mettendosi in silenzio. Lontano. Ma sempre “vicino”.
Perché la memoria non mente e il ricordo di alcune esperienze, diviene cicatrice dell’anima, che fa male e ci disturba alquanto.In questo periodo le cicatrici sono state tante, troppe. Ed è accaduto di tutto. Perché sapere che Morte non se ne andrà mai via, conduce ad una consapevolezza difficile da gestire.
Abbiamo assistito a spettacoli indecorosi, a sofferenze estreme e all’esaltazione della superbia umana che è andata a contaminare di umana mediocrità figure indiscusse, che dovevano essere lasciate integre, capaci da sempre e per sempre di indicarci la verità lungo la nostra freccia del tempo.
La scienza ci ha da sempre insegnato che la sua forza, unica e superiore ad ogni altro sapere “pseudo-scientifico”, ci racconta e descrive fenomeni, la cui continua osservazione e analisi, arricchiscono di dettagli e di conoscenza ciò che l’occhio umano può solo immaginare.
Ma l’uomo, con la sua superbia ha voluto avvicinarsi a ciò che non sarà mai possibile raggiungere. Profezie, asserzioni perentorie, comunicazioni distorte che anticipavano il futuro, negazioni di ovvietà scientifiche, che chiunque di noi aveva interiorizzato lungo le notti infarcite di fatica e di ansia prima degli esami.
Ma l’uomo non poteva rimanere umile dinanzi all’immensità della scienza.
Doveva affermare che le mascherine non servivano. Per poi arrivare a imporne l’obbligo a chiunque, quando sarebbe stato sufficiente decretarne l’onere dell’utilizzo per ogni cittadino, sin dal primo momento in cui il virus ha fatto il suo ingresso. Per sole tre settimane. Massimo un mese.
Abbiamo visto l’espressione superba, tracotante e saccente di qualche altro uomo vestito di scienza, pagato per essere burattino della propria mediocrità, affermando che il virus non sarebbe mai giunto da noi o che si trattava di una semplice influenza.
Abbiamo ascoltato la ripetizione ossessiva di dati e notizie volte ad attirare l’attenzione di tutti noi, in cambio di un comportamento ritenuto “civile” o semplicemente per l’acquisto di qualche abbonamento per una rivista o giornale. Mentre i cosiddetti social amplificavano la voce di chi, forte di un’inconsapevole inferiorità, forniva teorie e visioni alternative, volte ad affermare semplicemente il proprio bisogno di eternità.
Non so cosa sia stato, ma questo palcoscenico mi ha evocato alcune immagini che ho posto in relazione tra loro e che mi hanno dato un margine di comprensione di quanto stava accadendo.
Le immagini di due opere: “I sette peccati capitali” di Hieronymus Bosch e la “Torre di Babele” di Pieter Brueghel.
Perché è stata proprio la superbia dell’uomo a pensarsi a livello di Dio.
Il sapere scientifico a cui tutti noi abbiamo teso, faro della nostra esistenza, quasi una fede per i momenti più difficili, è stato infangato dalla superbia umana, troppe volte osservata in questi giorni di malata realtà.
Ma c’è una terza opera a cui penso come ultimo atto di quanto accaduto.
E’ un quadro che ritengo attuale, quasi profetico del nostro prossimo e, ormai, attuale futuro.
Un futuro ambito da tutti noi, che segna la fine di questo triste e angoscioso spettacolo a cui ognuno ha, a suo modo, partecipato.
Ed è “La nave dei folli” di Hieronymus Bosch.
Perché è questo il nostro tempo di oggi.
Dopo un breve periodo in cui la voce di Morte ci ha ricordato della sua perenne presenza nel corso del tempo, oggi possiamo tornare ad una sana follia. Continuando a pensare e desiderare, a progettare e a respirare, nutrendosi del fatto che Morte, con il suo silenzio, non ci ricordi più che la sua vita continuerà in eterno, potendo così vivere nella sana inconsapevolezza della nostra precarietà.
Erasmo da Rotterdam, autore di un’opera inimitabile “Elogia della Follia”, affermava:
“Eppure, ve lo assicura la Follia in persona, uno è tanto più felice quanto più la sua Follia è multiforme” e che “Solo la Follia è capace di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima, e di tenere lontana la molesta vecchiaia”, perché: “Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico”.

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