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“Tempo e depressione”. Riflessioni

“Tempo e depressione”. Riflessioni

di
Filippo Tancredi

“La felicità di oggi fa parte del dolore di domani” e “il dolore di oggi è parte della felicità di ieri”. Due momenti, i più importanti, su cui si costruisce una delle opere teatrali più intense della letteratura anglosassone, a noi rese note attraverso il film omonimo “Viaggio in Inghilterra” di Richard Attenborough.
Pochi anni dopo Proust scriveva: “Se non fossimo stati felici, non fosse altro grazie alla speranza, le sventure sarebbero prive di crudeltà, e per conseguenza infruttuose”.
E’ “Il Tempo Ritrovato”, sesto ed ultimo volume di un lungo percorso di ricerca letterario offerto dall’opera “A la recherche du temps perdu”. Forse la più grande creazione dell’artista parigino, scritta in circa 20 anni di lavoro. Felicità, dolore, attesa, speranza. Tanti stati che vivono e si muovono ma, soprattutto, si esprimono per e attraverso la dimensione temporale.
E’ il tempo a dare un senso alla felicità, al dolore, alla speranza, al desiderio e alla depressione. “Si può essere davvero felici?” Non so. Certo la felicità è uno stato conosciuto, noto all’uomo ed è il ricordo della felicità a spingere l’uomo nella ricerca di essa. Il grande e unico desiderio dell’uomo è essere felici, tanto da rappresentare il vero motivo della filosofia. “Non vi è per l’uomo altra ragione del filosofare che quella di essere felici”, diceva Agostino. Ma la felicità è inattesa e, come il dolore, è instabile, non duratura, fugace ma rispetto al dolore è certamente più originaria. Esiste attraverso l’attimo, si nutre del momento e ignora il tempo, che, invece, sopravanza, consumando l’attimo. Un vertice che è un preludio alla caduta.
E’ il tempo a essere il dettame delle passioni, lo sapeva bene Orazio Flacco, scrittore latino noto al pubblico per il “carpe diem”, più che per le sue straordinarie Odi. E se la filosofia cerca il senso della felicità attraverso il tempo, la psichiatria, dalla filosofia e attraverso essa, interpreta il dolore psichico nuovamente attraverso il tempo. Ma l’analisi dei fenomeni attraverso il senso del tempo deve avvenire non confondendo il tempo soggettivo con il tempo oggettivo, due dimensioni il più delle
volte non coincidenti tra loro. Il tempo soggettivo è il tempo vissuto, è l’esperienza dello scorrere del tempo, diverso dal tempo oggettivo o obiettivo, che rappresenta la nozione del tempo. Un tempo obiettivo ben articolato nei suoi tre stati temporali precisi quali il passato, il presente e il futuro. Stati chiusi e distinti in loro stessi. Nell’esperienza soggettiva non si vive il tempo come un essere finito e determinato ma come un farsi, che non si configura attraverso gli stati cronologici del tempo oggettivo bensì mediante l’essere ora, l’essere da un passato verso un avvenire.
E’ il tempo vissuto, che si conosce solo vivendo quella vita in cui ogni presente esistenziale esprime un passato, che porta con sé e un avvenire che proietta.

Un passato e un futuro che assumono un senso, nel momento in cui si tende verso essi, creando quindi una continuità e una prospettiva. Un presente senza retenzione e privo di una protensione nel futuro, perderebbe ogni forma e qualunque senso.
E’ su queste dinamiche che si dischiudono orizzonti infiniti in merito alla comprensione del disturbo psichico, in quella situazione in cui la destrutturazione della temporalità sottende e sostiene la patologia mentale.
La moltitudine dei nostri pazienti raccontano la loro depressione, che si offre agli occhi di noi medici in tutte le sue forme, attraverso i loro vissuti, mutando nel tempo e con il tempo. Bergson sosteneva che la tristezza non è che un orientamento verso il passato, come se l’avvenire ci fosse in qualche modo precluso.
Un passato che non è passato e che non concede al futuro di avvenire, le cui dimensioni sono tali da imporre la perdita del presente e del futuro.
E’ la fissazione nel passato che ottenebra il presente e che non si proietta più nel futuro. Una dimensione che trova espressione nella continua rievocazione di episodi passati, assumendo così caratteristiche di prevalenza e di ruminazione mentale.
E’ l’accentuazione della ripetitività tipica del depresso, impoverito quanto nella produzione del pensiero, quanto nel suo linguaggio.
Si perde lo slancio vitale, ciò che dà senso alla vita, come sosteneva Minkowski.
E’ il momento della perdita della possibilità di fare esperienza al punto da comportare un vero e proprio delirio. Non è più l’attesa pessimistica dell’evento come nella patologia depressiva di media entità ma è la convinzione che gli avvenimenti ancora in corso abbiano già una loro compiutezza. E’ la depressione grave, con disturbo del pensiero derivato dalla flessione dell’umore. Una condizione in cui si determina anche la modificazione del rapporto con la realtà.
L’alterazione delle dinamiche temporali su cui l’esperienza si articola, impone al depresso un’interpretazione della vita in termini pessimistici o addirittura in modo delirante. Il futuro perde il suo significato e quindi si assiste alla scomparsa del desiderio, della speranza, insieme alla progressiva distruzione della sfera volitiva. Stati della mente che si realizzano soltanto attraverso il divenire, o meglio nella proiezione al venire. E quando il futuro si chiude, oltre al desiderio che si estingue, anche la speranza perde ogni sua forma, condizione che ha vita solo attraverso la protensione al futuro.
Il depresso si preclude il futuro in tutte le sue espressioni, confluendo così in un presente costretto dalla riedizione di un passato coartante e impermeabile a qualunque stimolo esterno. Una vera schiavitù in cui le figure psichiche prevalenti del malato si delineano soltanto attraverso il rimorso, il rimpianto e la colpa di ciò che è stato o di quanto non è stato. E’ la vera disperazione che perde nel tempo i suoi contenuti e nessi casuali, lasciando così ampio spazio ad un’angoscia pervasiva e inespugnabile, tale da occupare per intero la vita mentale dell’individuo.
Una perdita di continuità che trova nell’ossessione del passato la ragione del suo dolore ma anche il rifugio da un futuro più alieno e nefasto. Un passato che costringe al dolore, impedendo ogni espressione di libertà ma che costituisce una protezione rispetto ad un’esperienza futura che va rifuggita. Si fugge dall’avvenire, invece di cercarlo, cosicché si procede lentamente verso la sola condizione che si
contraddistingua per una sua finitezza.
E’ il cammino verso la morte in cui la depressione si risolve. E’ questo il pensiero del depresso, che erroneamente si avvicina al raggiungimento di una finitezza, che mai si raggiungerà nell’esistenza della vita umana. Ma una ricerca di una morte che altro non è che un tentativo di vivere meglio.
E’ su questo principio che si articola il lavoro relazionale con il depresso, che aspira ad una risoluzione con il suicidio che, invece, rappresenta l’errata elaborazione di un desiderio di vita, che prende forma e che va interpretato sin da subito, così da ripartire nella costruzione di una nuova esistenza che guarda al domani, ad un futuro che si incontrerà con la sana e saggia consapevolezza della non-finitezza della condizione umana.

 

Bibliografia
M. Heidegger, “Essere e tempo”. Longanesi & C. Milano. 2005
E. Minkowski. “Il tempo vissuto”. Biblioteca Einaudi. Torino. 2004
E. Husserl. “Le crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”. Il   Saggiatore. Milano 1961

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